“Voglio solo che tu rifletta, come uno specchio, tutte le ore che per te sono state quest’ora. Non per un esercizio mnemonico, o letterario. Ma per trovare, nella tua vita, più felicità di quanto ritieni di averne.”
Stefano Benni, L’ora più bella.
E’ quasi tramonto. Mi avvicino a piedi scalzi, in barba alle numerose sterpaglie, con indosso solo la macchina fotografica che ciondola al collo ed un pareo annodato male. Mi intrufolo furtiva lungo una stradina che costeggia il mare. Il mio sguardo l’aveva scovata per caso al mattino, nel breve tragitto che conduce dalla Statale alla sabbia e poi, di lì, al mare. Ci sono poche case attorno, tutte basse e strette l’una all’altra, quasi a contendersi quel piccolo pezzo di terra che il mare ancora non ha ancora raggiunto e di fronte quell’ immenso, meraviglioso tesoro che mi affretto a raggiungere.
E’ l’ora più bella, quella che tinge d’oro tutto l’intorno e forse è per questo motivo che il mio tesoro mi sembra così prezioso. Il sole scalda, ma non brucia; la brezza della sera comincia a soffiare: la sento sulla pelle, tra i capelli arruffati e spettinati dalle ore in ammollo nel sale. Avrei un po’ di fretta: di là mi aspettano tutti per rincasare, ma posso ancora rubare qualche minuto: giusto il tempo di portarne via un po’ con me.
“Che fa?” si chiedono con voce alta alle mie spalle.
“Scatto qualche foto” rispondo senza staccare occhio e guancia dall’obiettivo, con l’aria di chi non sa di sembrare un marziano.
“Ah …. e fa le foto alle cipolle?!” La distanza tra la voce e me è risibile almeno quanto quella che separa lo sterminato campo di fiori dall’uscio da cui proviene. Forse dovrei contemplare l’idea di aver violato una qualche proprietà altrui, forse avrei dovuto chiedere permesso, ma dalla mia bocca esce solo un tono un po’ infastidito.
“No signora, sono carote. Selvatiche, ma pur sempre carote. Sto fotografando fiori di carote selvatiche”.
“Capisco… ”
La voce si dilegua senza altro tipo di commiato. Stacco il viso dalla macchina e mi giro in cerca di un volto. Alle mie spalle c’è solo una porta d’ingresso aperta ed un vecchio tavolo da pranzo. Vorrei spiegare, ora che ne sento la necessità, ma già so, che no, non mi capirebbe affatto.
Fin da piccola mia madre mi ha sempre chiamato la Madama. Lo diceva in tono bonario certo, ma anche con una discreta dose di pungente ironia, poichè, pare, che avessi la strana e malsana propensione a scegliere sempre le “cose” più belle e quindi, la maggior parte delle volte, anche quelle più costose o irraggiungibili. Questo faceva di me un ottimo punto di riferimento per tutta la famiglia: se si aveva qualche dubbio o si doveva fare una scelta, chiedi consiglio alla Madama, era l’unica cosa da fare. Fatto salvo poi, trovare un’alternativa esteticamente valida e economicamente accettabile a quella appena decretata. Con gli anni questa mia propensione al bello si è evoluta trovando sfogo negli innumerevoi tentativi (più o meno riusciti) di intraprendere attività creative ed artistiche. Da bambina disegnavo e facevo ritratti su ogni foglio di carta che avessi a disposizione; da adolescente sognavo di fare la stilista di moda e trasferirmi in un loft a Parigi poi però appena diventata ragazza, ho scoperto l’architettura e mi ci sono buttatata a capofitto riuscendo finalmente a cavarne qualcosa di buono come una professione perfino remunerata. Da qualche anno, nonostante sia ormai una donna matura (in tutti i sensi), ho preso a dedicarmi anche alla fotografia, al cibo, alla musica e ai fiori di carota. Selvatica.
Non so verso quali altre follie questa mia innata ricerca estetica mi condurrà. Forse quando sarò vecchia comporrò mosaici, realizzerò gioielli o allestirò mostre d’arte. O forse invece avrò esaurito ogni vena artistica e le persone smetteranno di guardarmi come se fossi un marziano, mentre ammiro l’infinita bellezza di un campo di fiori, alti quanto me, che brillano di luce, nell’ora più bella della sera. Quello che so è ch’io trovo la bellezza ovunque. Tutt’intorno. Nelle cose piccole e in quelle grandi, nelle sciocchezze e nelle magnificenze, come in un filo d’erba o nel buio di un Caravaggio. Nei colori della natura, in un cesto di susine gialle – gocce d’oro col picciolo ancora attaccato – nella dedizione con cui preparo un dolce (e poi me lo mangio), allestisco un set, scatto una foto. Nella pace e nel senso di completezza con cui cerco di creare tutto il bello che potete trovate qui, nella mia cucina: nella cucina della Madama.
RECIPE
dosi per 6 monoporzioni
250 ml di panna fresca
80 ml di latte intero
2 cucchiaini di fiori di camomilla (in alternativa 1 bustina filtro)
100 g di zucchero semolato
3+1 fogli di glatina (totale 8 grammi)
6/8 susine gialle + 3 per la decorazione
120 g di zucchero a velo
1 bacca di vaniglia
Per iniziare mettete a mollo i 4 fogli di gelatina in acqua fredda per 10-15 minuti. Incidete il baccello di vaniglia nel senso della lunghezza ed estraete i semini raschiando con la punta di un coltello. Mettete in un pentolino la panna liquida, versate quindi lo zucchero, unite i semi di vaniglia e anche il baccello. Scaldate dolcemente a fuoco basso il tutto, ma senza far bollire. In un altro pentolino scaldate il latte e lasciatevi in infusione i fiori di camomilla (o la bustina). Non appena il latte avrà raggiunto il bollore unitelo alla panna cotta che avrete tolto dal fuoco e lasciate il tutto in infusione con la camomilla per 15/20 minuti. Strizzate bene 3 fogli di gelatina e scioglietela nel composto di panna e latte, girando con delicatezza affinchè non si formino grumi. Trascorso il tempo eliminate il baccello e togliete i fiori di camomilla. Mescolate bene un ultima volta, poi distribuite negli appositi stampini da panna cotta avendo cura di non riemirli fino al bordo ma di lasciare un po’ di spazio. Riponete in frigorifero a riposare. Nel frattempo lavate accuratamente le susine, tagliatele a pezzetti ed eliminatene il nocciolo. Unite lo zucchero a velo e riponete in una casseruola su fuoco medio. Lasciate andare girando continuamente fino a quando le susine non si saranno completamente apassite e avrete ottenuto una composta densa e simile alla confettura. Con l’aiuto di un colino passate la composta e ricavate una coulis liscia e cremosa. Unitevi l’ultimo foglio di gelatina ben strizzato e mescolate con cura. Asscuratevi che la panna cotta negli stampini si sia rassodata, dopo di chè unite la composta di susine a terminare lo stampo. Lasciate riposare in frigo per almeno 2 ore prima di servire. Per estrarr dallo stampo tenete ciascuno stampino per qualche secondo sotto l’acqua calda, poi rovesciate su piatto di portata. Decorate con pezzi di susina freschi, fiori di camomilla e caramello a piacimento.
Dopo tutto questo tuo meraviglioso racconto del tuo vagare alla ricerca del bello, non so più se chiamarti ancora Debora o “Madama”.
Fatto sta che la tua curiosità, non solo femminile, ma soprattutto geniale, nell’ora più bella del giorno, nel rosso tramonto, ti consente di cercare, scovare, trovare la soddisfazione di questo tuo sentire ed anche i fiori di carote selvatiche ti affascinano.
E’ una tua grande dote che porti in te fin da quando sei nata.
E’ la dote dell’essere geniale, di scoprire anche nelle cose più comuni la bellezza di tutto ciò che ci circonda. E’ la tua capacità di dedicarti ad ogni arte e trasformarti in genio di quell’arte. Qualunque attività tu intraprenda sarai sempre brava, distinta per grandezza da ogni altra persona. Tutto ciò, non diventerai mai vecchia, come dici tu, perché il desiderio di scoprire è innato e ti conserverà sempre giovane.
Sarai sempre legata alla capacità di saper osservare: pensa, per esempio a Leonardo, guardava gli uccelli e voleva volare disegnando aerei.
Osservava i pesci e disegnava scafandri per andare sott’acqua. Un po’ come fai tu, fotografi i fiori “alti come te”, le gocce d’oro e tutto disegni in una “panna cotta camomilla e gocce d’oro”.
Insomma carissima Deb o, per meglio dire, carissima “Madama” ogni attività che passa tra le tue mani, nella tua mente, ma, soprattutto attraverso il tuo cuore si trasforma in “ARTE”!!